La messa a disposizione dei contribuenti della superficie catastale oggi è ininfluente ai fini della quantificazione della Tari dovuta, perché la normativa impone, per il 2015, il calcolo sulla superficie calpestabile. Il comma 645 della legge 147/2013 prevede, infatti, che per gli immobili a destinazione ordinaria (quelli delle categorie catastali A, B e C) la superficie imponibile «è costituita da quella calpestabile dei locali e delle aree suscettibili di produrre rifiuti».
Tale criterio deve essere utilizzato fintanto che non saranno attuate le procedure di interscambio tra i Comuni e l’agenzia delle Entrate previste nel comma 647, per la determinazione della superficie assoggettabile alla Tari pari all’80% di quella catastale.
Per completare il quadro normativo, occorre considerare che il comma 645 prevede che l’utilizzo delle superfici catastali per il calcolo della Tari decorre dal 1° gennaio successivo alla data di emanazione di un provvedimento del direttore delle Entrate. Prima però bisognerà raggiungere un accordo – da sancire in sede di Conferenza Stato-città ed autonomie locali – che attesta l’avvenuta completa attuazione delle disposizioni di cui al comma 647.
Così ricostruito il quadro normativo, è evidente che la semplice pubblicazione di un avviso con il quale si comunica la messa a disposizione della superficie catastale non è sufficiente a determinare il cambio del criterio di calcolo della superficie imponibile. Se l’accordo in sede di Conferenza Stato-città e il provvedimento del direttore dell’agenzia delle Entrate dovessero arrivare entro dicembre, allora dal 2016 si potrebbe applicare la Tari sulla base dell’80% della superficie catastale indicata in visura.
L’Anci sottolinea che «l’utilizzo generalizzato ai fini del prelievo sui rifiuti (Tari) delle superfici catastali, che potrebbe essere attivato nel prossimo futuro sulla base di leggi già vigenti, determinerebbe il passaggio dalla superficie calpestabile, attualmente adottata in base alle dichiarazioni dei contribuenti, alla nuova superficie catastale a fini Tari, con modestissimi effetti redistributivi». E del resto «già da oltre un decennio (in base alla legge 311/2004) i Comuni utilizzano le superfici elaborate sulla base delle planimetrie catastali come riferimento per l’effettuazione dei controlli sulla correttezza delle dichiarazioni».
Ovviamente la pubblicazione della superficie catastale è utile per il contribuente, perché in realtà il Comune può già utilizzarla in sede di accertamento e quindi è oggi possibile al cittadino verificare la correttezza dell’operato comunale.
A ben vedere, però, anche in questa materia c’è il solito pasticcio normativo, perché già in regime di Tarsu l’articolo 70 del Dlgs 507/1993 prevedeva che a decorrere dal 1° gennaio 2005, per gli immobili a destinazione ordinaria, la superficie di riferimento non poteva essere «in ogni caso inferiore» all’80% della superficie catastale e sulla scorta di tale norma molti Comuni hanno provveduto ad aggiornare le proprie banche dati.
Se si considera, infine, che i commi 646 e 686 della legge 147/2013 stabiliscono che restano ferme le superfici già dichiarate o accertate ai fini dei numerosi previgenti prelievi, è evidente che, a dieci anni dall’introduzione del criterio dell’80% della superficie catastale, nelle banche dati comunali vi sono contribuenti che pagano (legittimamente) in base o alla superficie calpestabile o a quella catastale.