La finanziaria 2016 ha modificato in modo significativo l’art. 13 della L. 431/98 introducendo nuovi commi e modificandone altri già esistenti, ma apporti importanti alla interpretazione della lettera della Legge (art. 13 anche correlato all’art. 1, comma 4 della l. 431/1998) derivano dai fondamentali contributi di recentissime pronunce della Suprema Corte.
In particolare la sentenza n. 18214 del 17.09.2015 ha affrontato il problema della forma dell’atto che sigla il rapporto fra le parti, nella materia che ci occupa, il contratto di locazione. Ed invero l’art. 1 comma 4 della L. 431/1998 espressamente prescrive “per la stipula di validi contratti di locazione è richiesta la forma scritta”.
L’attenzione della Corte si è posta sulla norma in questione al fine di determinare se in mancanza di una espressa previsione di nullità per il rapporto che manchi della forma scritta, il requisito della forma scritta, ai sensi del già citato art. 1 comma 4 della Legge 431/98, sia richiesto ad substantiam ovvero ad probationem e nel primo caso se l’eventuale causa di nullità sia riconducibile alla categoria della nullità “di protezione” di cui all’art. 13 comma 5 della Legge che nella stesura precedente alla riforma della norma prevedeva: “Nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinnanzi al pretore, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 2 ovvero dal comma 3 dell’art. 2. Tale azione è altresì consentita nei casi in cui il locatore ha preteso l’instaurazione di un rapporto di locazione di fatto, in violazione di quanto previsto dall’art. 1, comma 4, e nel giudizio che accerta l’esistenza del contratto di locazione il pretore determina il canone dovuto, che non può eccedere quello definito ai sensi del comma 3 dell’art. 2 ovvero quello definito ai sensi dell’art. 5, commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l’alloggio per i motivi ivi regolati; nei casi di cui al presente periodo il pretore stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti”.
E’ bene ricordare, prima di affrontare l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione che prima dell’avvento della Legge 431/1998, non era prescritto, nella precedente normativa, alcun obbligo di forma per la validità del contratto di locazione. Ed invero sia nella Legge 392/1978, rimasta in vigore per le locazioni ad uso diverso sia nella successiva Legge 359/92 intervenuta solo sulle locazioni ad uso abitativo vigeva il principio di libertà di forma (con esclusione dell’art. 1350 co 1 n. 8) c.c. che prevedeva l’obbligo di forma scritta per le locazioni ultra novennali).
L’introduzione dell’art. 1 comma 4, nato dalla necessità di far emergere tutti quei contratti stipulati “in nero” (per superare i pesanti limiti alla libertà negoziale delle parti, fissati dalla Legge dell’Equo canone e quindi per sottrarre all’imposizione fiscale i redditi dalla locazione di immobili), fu dettato da precise esigenze.
In particolare: 1) garantire certezze sull’esistenza e sul contenuto del contratto, oltre che sulla stessa volontà delle parti; 2) rendere possibili i controlli sul contenuto del contratto; 3) protezione del contraente che, con l’adozione della forma scritta, viene reso edotto e consapevole delle obbligazioni assunte; 4) rendere trascrivibile il contratto ai fini di pubblicità, per rendere opponibile ai terzi i diritti che ne scaturiscono e per contrastare l’evasione fiscale.
La Suprema Corte precisa “La prescrizione della forma scritta, difatti, appare volta essenzialmente a tutelare l’interesse alla trasparenza del mercato delle locazioni in funzione dell’esigenza di un più penetrante controllo fiscale”… “E proprio il collegamento funzionale (anche se non strutturale) tra forma scritta e registrazione del contratto apparve e tuttora appare particolarmente significativo in tal senso.” In tal senso va letto l’art. 13, comma 1, che nella sua formulazione rimasta immutata recita “E’ nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato.”
La previsione del requisito della forma scritta viene incontro, quindi, ad un interesse generale che è superiore e comunque include anche l’interesse del conduttore quale “parte debole del contratto”.
Su questo indirizzo la Giurisprudenza di merito, facendo proprio il convincimento per cui l’art. 1 co. 4 vada interpreto ad eleggere la forma scritta quale requisito essenziale del contratto per cui in difetto il contratto è affetto da nullità, ha privilegiato l’orientamento che ritiene la forma scritta richiesta ad substantiam. Producendo pertanto, il difetto di forma, una nullità insanabile.
Non ha invece trovato riscontro da parte della Giurisprudenza l’indirizzo che ritiene che la forma scritta, richiesta per il contratto di locazione di immobile ad uso abitativo, sia soltanto ad probationem e non pertanto un requisito essenziale del contratto.
Un terzo orientamento ritiene poi necessaria la forma scritta ad essentiam in diretta correlazione con la facoltà prevista per il solo conduttore di chiedere la riconduzione ex art. 13, comma 5, in caso di rapporto di mero fatto in quanto costituito verbalmente su imposizione del locatore, con la conseguenza importante che soltanto il conduttore coartato nella sua volontà negoziale può fare valere la nullità del contratto privo della forma scritta. Il conduttore può quindi fare valere in via esclusiva la nullità negoziale per mancanza della forma scritta. Il conduttore sarà il solo soggetto legittimato a chiedere che la locazione di fatto, nulla per vizio di forma, venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dagli accordi definiti ai sensi del comma 3 dell’art. 2 ovvero ai sensi dell’art. 5, commi 2 e 3.
E’ quest’ultimo l’orientamento sposato dalla sentenza in commento che tuttavia non fa mistero delle difficoltà sottese alla declaratoria di nullità, gravanti sul conduttore in applicazione del principio dell’onere della prova. Il conduttore dovrà infatti fornire la prova dell’abuso che si concretizza nella circostanza che il locatore abbia preteso l’instaurazione del rapporto di fatto ed il conduttore l’abbia subita contro la sua volontà.
La Corte conclude affermando che “la nullità di protezione, e le relativa conseguenze, sarà pertanto predicabile solo in presenza dell’abuso, da parte del locatore, della sua posizione “dominante” … “ mentre nel caso in cui tale forma sia stata concordata liberamente tra le parti (o addirittura voluta dal conduttore), torneranno ad applicarsi i principi generali in tema di nullità. Il locatore potrà agire in giudizio per il rilascio dell’immobile occupato senza alcun titolo, e il conduttore potrà ottenere la (parziale) restituzione delle somme versate a titolo di canone nella misura eccedente quella del canone – poiché la restituzione dell’intero canone percepito dal locatore costituirebbe un ingiustificato arricchimento dell’occupante”.
Ad oggi, con l’eliminazione dal comma 5 dell’art. 13 del riferimento alla locazione di fatto, venuta meno l’eccezione alla regola generale, la nullità comminata alla mancanza di forma scritta va inquadrata come nullità assoluta ed insanabile, e quindi ad substantiam.
Ancora nell’ambito della disciplina contenuta nella legge 431/98, la Suprema Corte a sezioni unite con la pronuncia n. 18213 emessa anch’essa in data 17.09.2015 torna nuovamente ad occuparsi dell’art. 13, ed in particolare del comma 1 che espressamente recita “E’ nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”.
Ci si è chiesti se l’ipotesi di simulazione del canone di locazione possa essere ricondotto alla disciplina di cui all’art. 13 comma 1 della legge 431 del 1998 ovvero se la normativa riguardi soltanto l’ipotesi in cui nel corso dello svolgimento del rapporto locativo venga pattuito un canone superiore rispetto a quello originario. Inoltre, ci si chiede che rilevanza giuridica possa essere attribuita all’ intervenuta registrazione della controdichiarazione (se a questa possa attribuirsi un efficacia sanante della nullità comminata dalla disposizione di Legge in argomento.
In particolare la sentenza entra nel vivo della questione prendendo le mosse da una fattispecie abbastanza comune: la stipula e la registrazione di un contratto di locazione con la previsione di un determinato canone e la contestuale stesura di una controdichiarazione che in deroga al contratto scritto e registrato prevede un canone diverso e superiore a quanto pattuito.
La problematica presentata riporta all’attenzione il contenuto della sentenza della Cassazione n. 16089 del 2003 in virtù della quale veniva riconosciuta validità all’accordo dissimulato sul prezzo pattuito in contratto, escludendo così l’applicazione dell’art. 13 comma 1 all’ipotesi di simulazione relativa. Tale interpretazione viene considera costituzionalmente orientata¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬¬ in quanto conforme all’indirizzo della Corte Costituzionale – espresso in più pronunce – in ordine all’omissione dell’adempimento fiscale in materia di locazione.
La ratio della norma interessata (art. 13 co . 1 della Legge 431/98) sostiene la S.C. con la sentenza n. 16089/2003 è quella di garantire l’invarianza del canone per tutto il tempo della durata del rapporto anche al fine di tutelare la parte debole del contratto ovvero il conduttore, pertanto la nullità comminata è volta piuttosto a colpire la pattuizione, nel corso di svolgimento del rapporto di locazione, di un canone più elevato rispetto a quello risultante dal contratto originario. La previsione di un accordo contestuale sull’importo del prezzo da pagare anche se difforme da quello contenuto in contratto non può incidere sul principio di invarianza del canone che infatti non muta rispetto a quanto originariamente pattuito seppure in separato atto. La pronuncia inoltre al fine di rafforzare la tesi prospettata sostiene che poiché è pienamente valido il contratto scritto ma non registrato (non rilevando nei rapporti tra le parti, la totale omissione dell’adempimento fiscale, essendo tra l’altro la fattispecie in oggetto antecedente alla finanziaria 2005) ritiene certamente valido l’accordo scritto che si limiti a prevedere un canone difforme e più elevato rispetto a quello risultante dal contratto scritto e registrato, in questo caso infatti l’inadempimento fiscale sarebbe solo parziale essendo stata omessa una sola parte del corrispettivo dichiarato.
La Corte di Cassazione rivedendo il su citato orientamento ha invece sottolineato che la normativa non può in alcun modo limitarsi soltanto alle ipotesi di integrazione del canone in corso di rapporto perché l’art. 13 comma 1 mira a colpire l’illeicità dell’accordo volto appunto a realizzare un fine illecito ossia l’elusione fiscale. Quindi la finalità della norma è quella di sanzionare di nullità la previsione occulta di una maggiorazione del canone apparente.
In secondo luogo ha evidenziato l’irrilevanza a tal fine della registrazione della controdichiarazione questo per due ragioni, la prima che il procedimento simulatorio, nel caso di specie, si perfeziona con la stipula del contratto scritto e registrato e con l’accordo simulatorio essendo ininfluente la forma che la controdichiarazione assuma (scritta o orale). Questa può semmai avere solo una validità probatoria dell’accordo (non essendo ammessa la prova della simulazione a mezzo testimoni o per presunzioni) ma non è essenziale ai fini del procedimento simulatorio tanto da poter essere anche successiva all’accordo che sottende e unilaterale. La seconda è che la registrazione proprio in funzione dello scopo che la norma persegue è inidonea a spiegare influenza sull’aspetto civilistico della sua validità/efficacia. Se la sanzione della nullità derivasse dall’obbligo di registrazione (precisa la Corte), allora sembrerebbe ragionevole ammettere un effetto sanante al comportamento del contraente che, sia pure tardivamente, adempia a quell’obbligo.
In particolare, il convincimento della Suprema Corte ¬¬¬¬¬ sezioni unite si fonda prevalentemente su due principi: 1) il principio relativo alla causa concreta del negozio, che nel caso analizzato sarebbe collegato allo scopo di ottenere uno specifico risultato vietato dalla legge (consentire al locatore di eludere il fisco, assoggettando ad imposta un reddito inferire a quello effettivamente conseguito); e
2) il principio antielusivo del divieto di abuso del diritto in materia di imposte – che trova fondamento nell’art. 53 della Costituzione – secondo cui non possono trarsi benefici da operazione che sebbene perfettamente valide e volute sono poste in essere al solo scopo di conseguire un indebito vantaggio fiscale in contrasto con la stessa ratio delle norme fiscali.
Chi scrive nutre dei seri dubbi sul ragionamento della Suprema Corte in ordine alla soluzione adottata nell’ipotesi di simulazione relativa.
Non si comprende perché nonostante si ritenga unitario il procedimento simulatorio – costituito da accordo simulato (in cui viene manifestata una volontà apparente) accordo dissimulato (che rappresenta l’effettiva volontà delle parti) e controdichiarazione ( a cui si attribuisce solo una funzione probatoria ed interpretativa dell’accordo delle parti), si è giunti alla conclusione di ritenere valido e produttivo di effetti solo l’accordo simulato (quindi una parte del procedimento simulatorio) che prevede il canone fittizio, valutando privo di effetti l’accordo dissimulato relativo al canone voluto e fissato di comune accordo dalle parti contraenti.
Anche a volere condividere il principio della causa concreta del negozio – nel caso analizzato la causa è contraria alla legge – non si capisce il perché resterebbe valido soltanto parte del procedimento simulatorio ovvero l’accordo simulato che prevede il canone fittizio. Tutto questo in contrasto con il principio secondo cui in materia di simulazione produce effetto soltanto l’accordo dissimulato in cui è racchiusa l’effettiva volontà delle parti contraenti.
Di conseguenza applicando il principio della causa concreta del negozio, atteso il carattere unitario del procedimento simulatorio, si dovrebbe ritenere nullo l’intero procedimento incluso l’accordo simulato, in assenza di una espressa previsione di legge circa un sistema di sostituzione automatica della pattuizione contraria alla legge. Di fatto con il suo orientamento la S.C. ha azzerato la libera volontà delle parti espressa nell’accordo dissimulato.
Un altro aspetto certamente non marginale nell’analisi dell’art. 13, come riformato dalla Finanziaria 2016, è la previsione di cui al sesto comma. Il comma in questione riporta nella parte iniziale lo stesso contenuto di cui al comma 5 dell’art. 13 ante riforma: “Nei casi di nullità di cui al comma 4 il conduttore, con azione proponibile nel termine di sei mesi dalla riconsegna dell’immobile locato, può richiedere la restituzione delle somme indebitamente versate. Nei medesimi casi il conduttore può altresì richiedere, con azione proponibile dinnanzi all’autorità giudiziaria, che la locazione venga ricondotta a condizioni conformi a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 2 ovvero dal comma 3 dell’art. 2”. Introduce quindi una previsione innovativa stabilendo che: “Tale azione è, altresì, consentita nei casi in cui il locatore non abbia provveduto alla prescritta registrazione del contratto nel termine di cui al comma 1 del presente articolo” (ovvero entro trenta giorni). Infine a parziale modifica della precedente stesura: “Nel giudizio che accerta l’esistenza del contratto di locazione il giudice determina il canone dovuto, che non può eccedere quello del valore minimo definito ai sensi dell’art. 2 ovvero quello definito ai sensi dell’art. 5 commi 2 e 3, nel caso di conduttore che abiti stabilmente l’alloggio per i motivi ivi regolati. L’autorità giudiziaria stabilisce la restituzione delle somme eventualmente eccedenti.”
La norma così modificata ha già trovato applicazione concreta come si evince dalla recentissima sentenza del Tribunale di Torino, sezione VIII civile del 21.04.2016. Il Tribunale di Torino a fronte di un contratto di locazione ad uso abitativo stilato e sottoscritto dalle parti nel 2008 e registrato soltanto nel 2012, su richiesta della parte conduttrice relative alla rideterminazione del canone stante la registrazione tardiva del contratto, ha decretato in forza del combinato disposto dei commi 6 e 7 dell’art. 13 “Sono nulli i contratti di locazione abitativo non registrati entro il termine di legge. L’azione di conformazione del contratto di cui al comma 6, seconda parte dell’art. 13 L. 431/1998, come novellato con l. 208/2015 (legge finanziaria 2016), è applicabile a tutti i contratti stipulati dopo l’entrata in vigore della l. 431/1998, ossia con decorrenza dal 30.12.1998, in forza del disposto di cui al comma 7 dell’art. 13 l. 431/1998 nel testo novellato”.
La sentenza in questione ribadisce la nullità del contratto di locazione anche se tardivamente registrato in virtù della disposizione di cui all’art. 1, comma 346, l. 311/2004, a mente del quale “I contratti di locazione o che comunque costituiscono diritti comuni di godimento, di unità immobiliari ovvero di loro porzioni, comunque stipulati, sono nulli se, ricorrendone i presupposti non sono registrati” e della disposizioni di cui al co. 1 dell’art. 13 della L. 431/1998: “E’ nulla ogni pattuizione volta a determinare un importo del canone di locazione superiore a quello risultante dal contratto scritto e registrato”. A maggior ragione a seguito dell’interpretazione che del co 1 dell’art. 13 ha fornito la Cassazione con la sentenza n. 18213/2015. La registrazione non sana la nullità del contratto.
Assunto tra l’altro condiviso da buona parte della giurisprudenza di merito, mentre minoritario è considerato quell’orientamento della giurisprudenza di merito secondo cui la registrazione del contratto, non costituirebbe requisito di validità ma condizione di efficacia del contratto, con la conseguenza che la registrazione tardiva consentirebbe di ritenere il contratto efficace ( tesi sposata almeno fino ad oggi dal Tribunale di Catania, ordinanza 29.02.2016 “..ritenuto che rimane ora da verificare quale sia l’effetto della tardiva registrazione di un contratto di locazione; ritenuto che conformemente all’indirizzo seguito da questa sezione, la nullità prevista dalla legge derivante dalla mancata o tardiva registrazione del contratto di locazione non è insanabile e, dunque, la registrazione del contratto di locazione seppur tardiva, cioè intervenuta oltre i termini fissati dalla legge avuto riguardo al momento di stipula del negozio, determina una sopravvenuta sanatoria del contratto consentendo che lo stesso produca effetti; ritenuto che una volta pervenuti all’esposta conclusione, occorre affermare che il canone dovuto dalle resistenti è quello contrattualmente convenuto;)
Ciò che preme attenzionare è in primo luogo che l’onere della registrazione, in passato a carico di ambo le parti contrattuali, viene posto ad esclusivo carico del locatore dal comma 1 dell’art. 13.
Ancora la previsione che commina le sanzioni di cui al sesto comma è applicabile a tutti i contratti registrati oltre il termine di trenta giorni in base a quanto disposto dal co 1 e dal co 6 dell’art. 13. E’ evidente che chi registra il trentunesimo giorno non ha alcun intento elusivo ma corre il rischio, al termine di un rapporto locativo, di vedersi proposta un azione ai sensi del sesto comma pur avendo regolarmente dichiarato tutti i redditi percepiti. La norma perciò, poiché non subordina la sua applicazione all’effettivo intento di elusione fiscale, verrebbe a colpire anche il contribuente che non intende eludere il fisco.
E’ certamente un altro punto critico, la previsione di cui al comma 7 dell’art. 13: “Le disposizioni di cui al comma 6 devono intendersi applicabili a tutte le ipotesi ivi previste insorte sin dall’entrata in vigore della presente legge”.
Secondo l’interpretazione data dal Tribunale di Torino la norma in questione attribuisce efficacia retroattiva alla disposizione di cui al sesto comma, rendendole applicabili “a tutti i contratti stipulati dopo l’entrata in vigore della l. 431/1998 ossia con decorrenza dal 30.12.1998”.
La condivisione dell’interpretazione del Tribunale di Torino produrrebbe situazioni paradossali, nel caso del proprietario che per evitar gli effetti nefasti dei commi 8 e 9 dell’art. 3 del Dlgs 23/2011 abbia provveduto alla registrazione del contratto in forza del co 10: “La disciplina di cui ai commi 8 e 9 non si applica ove la registrazione sia effettuata entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto” rischierebbe comunque laddove il contratto fosse ancora in corso, di subire le conseguenze del sesto comma dell’art. 13 della L. 431/1998.
Indubbiamente, così facendo il legislatore, con le novità introdotte dall’art. 13, dimostra di proseguire il percorso di repressione al fenomeno dell’elusione fiscale.
Infine il co. 5 dell’art. 13 nel testo novellato dalla Finanziaria 2016, pone nuovamente l’attenzione sui co. 8 e 9 dell’art. 3 del Dlgs 23/2011 prevedendo: “Per i conduttori che, per gli effetti della disciplina di cui all’articolo 3, commi 8 e 9, del decreto legislativo 14 marzo 2011, n. 23, prorogati dall’articolo 5, comma 1-ter, del decreto-legge 28 marzo 2014, n. 47, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 maggio 2014, n. 80, hanno versato, nel periodo intercorso dalla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 23 del 2011 al giorno 16 luglio 2015, il canone annuo di locazione nella misura stabilita dalla disposizione di cui al citato articolo 3, comma 8, del decreto legislativo n. 23 del 2011, l’importo del canone di locazione dovuto ovvero dell’indennita’ di occupazione maturata, su base annua, e’ pari al triplo della rendita catastale dell’immobile, nel periodo considerato.”
E’ opinione di chi scrive che debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale della norma di cui sopra.
La questione di legittimità dell’art. 13 comma 5 della legge n. 431 del 1998 così come modificato dalla legge stabilità del 2016 si rivela non manifestamente infondata con riferimento all’art. 3, 42 e 136 della Costituzione.
Il legislatore, in violazione del principio di intangibilità del giudicato costituzionale di cui all’art. 136 della Costituzione, dimostrando di ignorare il contenuto di ben due sentenze della Corte Costituzionale – la sentenza n. 50 del 2014 del 14.03.2014 e la sentenza n. 169 del 2015 -, ha emanato (per la seconda volta) una norma che sostanzialmente consente il perdurare degli effetti di una norma dichiarata incostituzionale, ovvero, l’art. 3 comma 8 e 9 del dlgs n. 23/2011. Il principio di intangibilità del giudicato costituzionale – contenuto nell’art. 136 della Costituzione – costituisce, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale, il fondamento essenziale di tutto il sistema delle garanzie costituzionali.
In forza di tale principio è tolta immediatamente ogni efficacia alla norma dichiarata incostituzionale senza possibilità di compressioni od incrinature nella sua rigida applicazione secondo quanto ha affermato la Corte Costituzionale che attribuisce un rigoroso significato all’art. 136 della Costituzione (vedasi sentenza n.73 del 1963)
La norma incriminata, ponendosi in contrasto con gli articoli 42 e 136 della Costituzione, in considerazione delle citate sentenze della Corte Costituzionale, consentirebbe al conduttore di pagare tre volte la rendita catastale, quale canone di locazione dal periodo intercorso dalla entrata in vigore del dlgs n. 23/2011 sino al 16.7.2015, sottraendolo ingiustificatamente all’adempimento integrale del contratto stipulato e in particolare nel caso di specie al pagamento delle somme ingiunte con apposita ordinanza di ingiunzione ex art. 423 c.p.c. del 30.12.2015.
La pronuncia di illegittimità costituzionale prima dell’art. 3 comma 8 e 9 del dlgs n. 23/2011 e dopo dell’art. 5 comma 1 ter del decreto legge del 24 marzo 2014 n. 47, ha avuto quale effetto naturale l’esigibilità del pagamento del canone di locazione, così come pattuito nel contratto di locazione.
Inoltre, il diritto di proprietà, in violazione dell’art. 42 della Costituzione è stato ingiustificatamente compromesso oltre il limite consentito ovvero il limite teleologico della funzionalità alle esigenze della collettività mediante un bilanciamento di interessi di rango costituzionale che non può tradursi così come affermato dalla Corte Costituzionale sentenza n. 55 del 1968 in uno “ svuotamento di rilevante entità ed incisività del suo contenuto”
Peraltro, la norma incriminata, in violazione dell’art. 3 della Costituzione, determina di fatto un regime irragionevolmente discriminatorio rispetto a medesimi rapporti di locazione, atteso che la norma trova applicazione solo in favore di quei conduttori che hanno beneficiato degli effetti della norma dichiarata incostituzionale denunciando il contratto non registrato.
Quanto fatto dal Nostro Legislatore – con l’evidente finalità di garantire una sorta di ultrattività ad una norma dichiarata incostituzionale – costituisce una grave violazione, improntata ad un evidente vizio di incostituzionalità e di contrarietà a qualsiasi principio giuridico e prima ancora di buon senso.
Oltretutto, la norma si presenta oggettivamente irragionevole, nella parte in cui prevede quale limite temporale per la salvaguardia degli effetti della norma incostituzionale la data del 16.7.2015 – in riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 169 del 2015 del 15.07.2015 – anziché alla data del 15.03.2014, in riferimento alla sentenza n. 50 del 2014 del 14.3.2014 che ha dichiarato incostituzionale l’art. 3 comma 8 e 9 del dlgs n. 23/2011.
Ragionare in termini diversi renderebbe inutili le due pronunce della Corte Costituzionale, atteso che la norma incriminata salverebbe gli effetti prodotti da disposizioni che in ragione della dichiarazione di illegittimità costituzionale non sono più in grado di produrne.
In ogni caso, si rileva che già il Tribunale di Roma con apposita ordinanza del mese di marzo 2016 ha trasmesso gli atti alla Corte Costituzionale ritenendo la predetta questione di legittimità costituzionale rilevante e non manifestamente infondata.
E’ opportuno rilevare per completezza che sul punto vi sono anche orientamenti difformi a mente dei quali si ritiene che la disciplina di cui al co 5 dell’art. 13 della L. 431/98, non pare essere passibile di censura dal punto di vista della mancata conformità a Costituzione, considerato che la stessa non si limita a prorogare gli effetti di una disposizione dichiarata incostituzionale, ma provvede essa stessa a dettare, a norma dell’art. 1339 c.c., al pari del novellato testo del comma 6 dell’art. 13 l. 431/1998, il contenuto del contratto di locazione non tempestivamente registrato, e considerato anche che la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 3, commi 8 e 9 d.lgs. 23/2011 era fondata su una ragione formale, quale l’eccesso di delega, e non sostanziale, ragione superata dalla circostanza che la disposizione in esame è stata introdotta con legge ordinaria.
Infine, nessun ostacolo di natura costituzionale si porrebbe a fronte della efficacia retroattiva di tale norma, trattandosi di norma volta a tutelare l’affidamento del conduttore, che in quanto parte debole del rapporto si sia effettivamente avvalso, sino alla definitiva declaratoria di incostituzionalità del regime in esame, di un canone di misura particolarmente favorevole nei suoi confronti, e che pertanto può ritenersi posta a tutela di interessi di rango costituzionale secondo il disposto dei già richiamati artt. 2, 3 e 117 Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali e all’art. 7 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.
Catania 16 Settembre 2016
U.P.P.I. di Catania Avv.ti Claudia Carmen Caruso e Gaetano Fabio Fiamma
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